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Dopo 10 anni, NOBORDERSARD chiude

Dieci anni. Si, sembra strano parlarne ora in cui i giorni scorrono lenti, scanditi dagli allarmi di pandemia.

Dieci anni diventano quasi un’era geologica in quest’epoca frenetica in cui tutto dura poco e viene sostituito e dimenticato come se niente fosse, ma è questo il tempo che è durato NOBORDERSARD, dal suo primo articolo sullo sgombero del palazzo di Giorgino occupato dai migranti a oggi, è passata tanta acqua sotto i ponti.

Ora è però giunto il momento di fermarsi, riflettere e riorganizzarsi.

Riflettendo sull’utilità dello strumento non possiamo dire che non sia stato uno strumento importante che ha affiancato le lotte e le iniziative. Ci ha accompagnato dalle lotte studentesche a quelle contro le basi militari, passando per il carcere, quella NoRadar e tante altre.

Nella ristrettezza dei nostri strumenti e delle nostre capacità abbiamo cercato di fornire degli elementi di critica ed analisi per meglio comprendere le lotte in corso, non disdegnando sguardi al passato e prospettive future.

Non sono mancate le visite e le condivisioni – sopratutto nei momenti “caldi” – dove abbiamo raggiunto cifre enormi e inaspettate, e neanche le riflessioni e i contributi. Ovviamente non possiamo dimenticare visite e commenti di sbirri, militari e pm, che ci sono costati anche qualche denuncia.

La decisione di fermarsi ha per noi uguale importanza della coerenza che abbiamo cercato di mantenere.

Uno strumento per quanto importante resta sempre tale e non metterlo in discussione, tenendolo come un’entità immutabile non è un concetto che ci appartiene.

Le nostre riflessioni si sono appiattite e spostate su altri strumenti, i contributi si sono ridotti all’osso, la pubblicazione di iniziative affievolita e il nostro impegno per portare avanti uno strumento come questo non è più lo stesso forse perché abbiamo smesso di sentirlo “nostro” nel senso più positivo del termine, così come abbiamo percepito nei nostri compagni l’abitudine ad avere un mezzo importante ma scontato.

Per questo abbiamo deciso di interrompere quest’esperienza nel prossimo futuro, raccogliendo il materiale che abbiamo pubblicato per metterlo a disposizione di chi è interessato e riflettere, scoprire o ricordare.

L’assenza mette in discussione anche l’esistenza stessa di uno strumento, sarà nei prossimi tempi che percepiremo la mancanza e capiremo se questo compagno di viaggio lascerà in noi il sapore amaro dell’addio o il dolce profumo del rilancio.

Per ora non possiamo che ringraziare tutte e tutti coloro che lo hanno seguito ed utilizzato e chi lo ha considerato uno strumento importante per le lotte, per uno spunto di riflessione o anche solo per un resoconto di un’iniziativa.

Per ora ci fermiamo qui, davanti a noi però si aprono ora tante strade, e valuteremo in che modo percorrerle.

Un abbraccio.

I redattori

Cagliari 23/3/2020

p.s.: il blog rimarrà aperto ancora per un po’ di mesi in modalità consultazione in modo che chi volesse salvarsi alcuni materiali lo possa fare con calma. Anche la mail rimarrà attiva ancora un po’, e vi invitiamo a scriverci commenti, saluti, ricordi, critiche, suggerimenti o barzellette. I materiali verranno salvati e saranno disponibili quando il blog sparirà dalla rete, vi aggiorneremo su dove li potrete reperire.

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Genova – Comunicato sul blocco dei carichi di guerra della Bahri Yanbu

Pubblichiamo il comunicato del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) di Genova in merito all’ennesimo blocco del terminal dove avrebbe dovuto attraccare la Bahri. Nell’ultimo anno il CALP insieme alla proficua collaborazione con compagni e solidali sta fornendo uno degli esempi più interessanti e efficaci di contrasto alla guerra e agli interessi economici ad essa connessi.

Per chi come noi, vive in una città di mare e di porto come Cagliari, queste notizie non possono che essere di ispirazione per proseguire la lotta contro la guerra e l’occupazione militare della Sardegna.

Sono passati alcuni giorni dal presidio a Varco Etiopia contro l’arrivo della Bahri Yanbu e può essere il momento per alcune riflessioni e un abbozzo di bilancio.

Provando a districarsi nel grande meccanismo della guerra si corre il rischio di perdersi e di incrociare un’ipocrisia dopo l’altra. Di fronte a quest’enormità pare solitamente che non si possa fare nulla o che i gesti e le azioni rimangano di fatto inefficaci. A noi invece pare che quello che è successo negli ultimi mesi attorno alla lotta contro la Bahri sia importante e produca degli effetti reali: mentre conoscevamo conflitti semisconosciuti e luoghi dai nomi difficili abbiamo conosciuto altri compagni, vicini e lontani e che in qualche caso avevano cominciato questa battaglia ben prima di noi. Una dimostrazione della dimensione assunta è la variegata (e se consideriamo il giorno feriale e la pioggia, pure significativa) partecipazione al presidio di Lunedì 17: volevamo bloccare l’ingresso principale del porto e chi c’era è stato da subito disponibile a porsi su questo piano e il blocco è durato più di sette ore, in barba agli avanzamenti repressivi dei governi. Danni reali forse non molti, perché probabilmente le contromisure per la gestione del traffico portuale, deviato sui varchi secondari, erano state prese in anticipo. Ma comunque un segnale significativo.

Un segnale altrettanto importante crediamo sia stata la discussione sorta tra i lavoratori chiamati quel giorno a lavorare sulla Bahri Yanbu e il fatto che alcuni si siano rifiutati di farlo, optando per una sorta di obiezione di coscienza. Le operazioni di carico (solo materiale “civile”, lo ricordiamo) non sono state pregiudicate da queste scelte singole, ma di questi tempi il rifiuto di collaborare non è poca cosa.

Se poi allarghiamo lo sguardo, le iniziative direttamente collegate alla Bahri, o in solidarietà, o più genericamente contro la guerra ma con esplicito riferimento alla sua logistica e al ruolo della compagnia saudita sono state davvero tante, nei porti (Anversa, Tilbury, Cherbourg, Bilbao) come altrove (Marsiglia, Firenze, Pisa, Milano, Livorno, Catania, Roma, Siena, Bologna, Torino, Trieste, Cagliari, Sassari, Basilea, Zurigo, Vienna, Berlino, Norimberga, Santander, Motril, Atene) mostrando come le fabbriche di armi, le basi militari, i centri di ricerca universitari al militare subordinati, così come tutto ciò che costringe alla migrazione e le condizioni di vita e di lavoro degli stranieri in Europa facciano parte dello stesso ingranaggio di guerra.

Dai primi momenti di lotta di maggio e giugno 2019 non è passato solo del tempo, ma si è anche allargata la consapevolezza del ruolo della compagnia saudita Bahri nei vari contesti di guerra che, lo ribadiamo ancora, non sono soltanto la guerra in Yemen, ma anche quella in Kashmir e in Rojava e Siria del Nord. La Bahri non è una compagnia navale qualsiasi ma svolge un servizio specializzato, perché la guerra è una merce che trova sempre spazio nelle sue navi, e verso qualsiasi destinazione; inoltre tra i suoi proprietari c’è l’impresa leader mondiale nella produzione petrolifera, la Saudi Aramco (che vanta anche il primato mondiale di inquinamento da anidride carbonica dal 1952 ad oggi). La guerra in Yemen serve a tutti i paesi occidentali, perché in gioco c’è il controllo dello stretto di Bab el Mandeb (e quindi gli alti profitti e i bassi costi) che garantisce all’Europa l’arrivo di tutte le merci cinesi e di tutto il petrolio mediorientale.

Varrebbero discorsi simili per quel che accade in Libia, e visto che tanto si parla della Bana ormeggiata in porto al Terminal Messina, sequestrata da giorni e con il comandante arrestato mercoledì, viene da chiederci come mai tutto questo scalpore: forse che tutta questa attenzione dei francesi ha anche a che fare con gli interessi (concorrenti) di Total ed ENI in Libia? E come mai nessuno dice che i mezzi portati con la Bana in Libia (e destinati al governo sostenuto anche dall’Italia, formato anche da qaidisti e miliziani Isis) sono sì di produzione turca, ma sempre in collaborazione con imprese europee (Bae Systems, Rheinmetall)?

E tanto per aggiungere un elemento: mentre eravamo a Varco Etiopia lunedì, stavano passando a Ponte Assereto (Terminal Traghetti) mezzi militari Iveco destinati ufficialmente alla Tunisia (e poi Libia??)

Tutti i capitalisti vendono armi a chi fa la guerra non solo perché è redditizio ma perché la guerra serve a tutti i capitalisti.

Di fronte a questi scenari, occorre rimarcare che quello che è accaduto nelle ultime settimane è frutto principalmente dell’iniziativa autonoma di lavoratori, compagni e tanti solidali ma davvero poco dei sindacati. La stessa “politica” a più riprese chiamata in causa ha risposto in modo allo stesso tempo chiaro, ambiguo e ipocrita e ne prendiamo atto: la legge vigente (185/90) non si applica alla guerra in Yemen perché sarebbe stato il governo yemenita a chiedere a quello saudita di… bombardare il paese; ugualmente, la stessa legge che recita “l’esportazione, l’importazione e il transito dei materiali di armamento […] nonché la cessione delle relative licenze di produzione, sono soggetti ad autorizzazioni e controlli dello Stato”, non si applica al… transito di materiali di armamento.

Quindi la legge italiana che regolamenta il traffico di armamenti, con le relative limitazioni per i contesti di guerra è, nei fatti e per le autorità stesse, ampiamente aggirabile – con buona pace dei sindacati che, da statuto, dichiarano “la pace bene supremo dell’umanità”.

Motivo di più per rimanere, ora e per il futuro, sul solco della lotta e accanto a tutti coloro che su quel solco hanno scelto di collocarsi.

Porti chiusi alla guerra.

E’ uscito il nuovo numero di NurKùntra

E’ uscito da poco il numero invernale di NurKùntra.

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In questo numero approfondimenti su:

Mario Trudu

Forestas

Turismo

Lavoro

Cervo sardo e altro ancora.

Per copie nel cagliaritano potete scrivere alla mail del blog per copie nel resto della Sardegna o più lontano ancora a nurkuntra@inventati.org.

Sono ancora disponibili copie dei numeri precedenti.

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Riflessioni a margine dell’Operazione Lince

Riceviamo a pubblichiamo lo scritto dell’Assemblea per l’Autodeterminazione, in merito all’Operazione Lince e alle richieste di Sorveglianza Speciale, il doppio colpo repressivo partito a settembre 2019 verso le lotte antimilitariste sarde.

Scarica, leggi e diffondi lo scritto: Riflessioni a margine dell’Operazione Lince

“Rispondere alla repressione significa, ora più che mai, opporsi ad azioni immonde come la guerra, alla povertà che da questa ne deriva, al conseguente ordinario controllo delle autorità, ed è oramai non solamente doveroso, ma necessario.
Quanto accaduto in Sardegna – e in particolare a Cagliari – non ci stupisce, e in parte forse c’era da aspettarselo. Lottare contro la guerra e i suoi loschi interessi non è una cosa che lo Stato può far passare liscia, se poi si unisce il fatto che a farlo sono migliaia di persone con molte pratiche differenti, tutte ugualmente rispettate, ecco che forse  appare ancora più scontato. Se fra questi poi si annidano dei sognatori testardi e ribelli, a cui non basta l’idea di un mondo senza eserciti, ma sognano un mondo di libertà e uguaglianza, allora si ha quasi la certezza che lo Stato reprimerà.”

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Presentazioni del secondo numero di Nc’at Murigu

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P.s. scusate per l’errore!!! Su Tzirculu è in via molise 58, non 64.

È uscito il secondo numero di Nc’at Murigu

Per copie, presentazioni o altre info scrivere alle seguenti mail
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KUNTRA SA PREPOTENTZIA DE S’ISTADU, FEUS KUMENTE S’ORTIGU

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Formato stampa: S’ortigu

Rimuovere il rimosso – Comunicato di solidarietà dal Trentino

Riceviamo e pubblichiamo:

Rimuovere il rimosso

Cominciamo decisamente a perdere il conto. Le operazioni repressive contro gli anarchici si susseguono senza sosta: “Scripta manent”, “Panico”, “Scintilla”, “Renata”, “Prometeo”, “Lince”…

Più l’arresto di Juan e Manu, di Amma, Uzzo e Patrick. Senza scordare l’“ordinaria amministrazione” di processi e condanne per singoli episodi di lotta, le perquisizioni e lo stillicidio di misure cautelari, di detenzione domiciliare e di “misure di prevenzione”. Un sistema articolato di strumenti giudiziari e polizieschi finalizzato a togliere dalle scatole quanti più compagni possibile e di isolarli anche all’interno del carcere. Se diamo una lettura complessiva, la natura sia “reattiva” sia “preventiva” della repressione emerge chiaramente.

Di più, siamo di fronte a un processo di normalizzazione, in cui l’aspetto strettamente repressivo è solo una parte. L’obiettivo è quello di togliere alla ribellione ogni dimensione storica e sociale, trasformando tanto le pratiche quanto gli individui in “figure di reato” prive di qualunque sfondo in cui possano essere collocate. È come se, mentre la società è attraversata da un sentimento inconfessato da finale di partita – con la percezione diffusa di qualcosa che incombe –, lo Stato compendiasse tutte le forme di repressione che ha accumulato nella storia. Ci sono singole azioni che danno indubbiamente fastidio, a cui l’apparato reagisce con la solerzia di attribuirle a tutti i costi a qualcuno, forzando se del caso la realtà all’interno delle ipotesi di Digos e Ros. Ci sono interi percorsi di lotta, di cui scompare l’ingiustizia che li genera, per diventare mera realizzazione di un “progetto criminoso” di un pugno di sovversivi.

Non è l’esistenza stessa dei CPR a spingere chi vi è internato a ribellarsi, a tentare la fuga, a distruggerne il funzionamento: no, sono gli anarchici all’esterno a sobillare gli animi e a istigare le rivolte. Non è lo storico processo di servitù militare a cui sono sottoposti interi territori a suscitare le mobilitazioni antimilitariste, bensì le trame di qualche anarchico. Non è la brutalità delle politiche anti-immigrati a fomentare l’azione contro le sedi della Lega, bensì una “campagna di lotta contro il fascio-leghismo” teorizzata da una rivista anarchica. Per cui in varie inchieste torna con insistenza il reato di “istigazione”, il cui veicolo sono riviste, giornali, opuscoli. Ma siccome dietro le lotte e le pratiche di azione diretta ci sono individui che, persino nell’èra della democrazia digitale, mantengono delle relazioni umane – e, tra queste, dei rapporti di affinità –, l’Apparato colpisce anche il tessuto di relazioni di solidarietà.

Dal momento in cui anche per reati di piazza si possono accumulare anni e anni di carcere, diversi compagni potrebbero decidere in futuro, come altri in passato e nel presente, di sottrarsi al carcere. Ecco allora gli sbirri sguinzagliati nelle case di amici e parenti alla ricerca di chi è uccel di bosco e, contemporaneamente, giudici emettere condanne spropositate – con tanto di “aggravante di terrorismo” – nei confronti di chi è accusato di aver aiutato un compagno latitante. Come monito per eventuali solidali e come ingiunzione: non c’è fuga dall’apparato di cattura delle vite. Più in generale, siccome resta piuttosto complicato, nonostante le intercettazioni, i pedinamenti, le perquisizioni, capire esattamente chi fa cosa, si attaccano a lana grossa contesti e raggruppamenti umani di cui le lotte e le azioni sono parte. Quest’ultimo aspetto rievoca, benché il contesto sia molto diverso, la legislazione dello Stato liberale contro gli esordi dell’Internazionale in Italia e del nascente associazionismo proletario – proprio da quell’epoca provengono anche misure come il divieto o l’obbligo di dimora e la sorveglianza speciale. Il regime fascista si è incaricato poi di stroncare fino alla paranoia quanto e quanti si collegavano a quella storia ribelle. Per la democrazia, infine, che è la forma politica dell’intubamento privato delle vite, dietro il sovversivo non dev’esserci più alcuna storia, ma solo una catena più o meno lunga di reati. Ora, visto che lo Stato democratico, rispetto ai precedenti strumenti repressivi, non ha buttato via nulla, il  risultato è appunto un compendio: la “depoliticizzazione” di ogni forma di illegalità antagonista. Così, da un lato, si cancella ogni dimensione storico-sociale del conflitto, mentre si spinge, dall’altro, l’asticella del consentito sempre più in basso.

Tutto questo per dire che, a dispetto dell’album delle figurine allestito dalla polizia politica e dalle Procure, e delle ricostruzioni a loro uso e consumo, come sfruttati in genere e come anarchici in particolare abbiamo una storia assai ricca da giocare contro i nostri nemici. Se è un insieme di relazioni, di strumenti e di pratiche che è sotto tiro, è proprio quell’insieme che va rivendicato e difeso.

Cogliamo l’occasione per mandare un saluto solidale ai compagni e alle compagne sotto inchiesta in Sardegna, in particolare ai cinque per cui verrà esaminata a breve la richiesta di sorveglianza speciale. In questo caso è particolarmente evidente non solo l’uso incrociato di reati associativi e di misure di prevenzione, ma anche il tentativo di far fuori una lotta antimilitarista che ha rivolto contro la macchina della guerra sia le trance e i sassi di tanti sia il fuoco di pochi. Questi compagni, che abbiamo avuto a fianco negli anni, hanno dato un prezioso contributo. La solidarietà nei loro confronti consiste per noi soprattutto nel rimuovere il rimosso della guerra, in un’epoca in cui non si esce dall’angolo senza rilanciare con forza, nel pensiero e nell’azione, una prospettiva internazionalista.

compagne e compagni di Trento e Rovereto

Adesione e chiamata di A FORAS al corteo del 30 novembre

Riceviamo e pubblichiamo:

A Foras, movimento contro l’occupazione militare della Sardegna, aderisce ed invita militanti, associazioni, organizzazioni politiche e tutti i cittadini e le cittadine sarde a partecipare al corteo del 30 novembre “DALLA PARTE DI CHI LOTTA”, con partenza alle 15 da piazza Giovanni XXIII a Cagliari. L’operazione Lince, promossa dalla procura di Cagliari poco prima della manifestazione di Capo Frasca, ha lanciato accuse pesantissime contro tutto il movimento. Queste accuse sono state restituite al mittente il 12 ottobre da una moltitudine che non si è fatta intimorire regalando un’altra giornata di lotta popolare e determinata. 45 indagati, 5 dei quali sono accusati di terrorismo e hanno ricevuto una richiesta di sorveglianza speciale, misura disponibile a PM e giudici che punta a distruggere la vita di chi la subisce con limitazioni fortissime alla libertà personale.

La migliore solidarietà è continuare a lottare”. L’appuntamento del 30 novembre di Cagliari sarà un momento importante per lanciare una serie di proposte e restituire dignità a tutti e tutte coloro che in questi anni hanno generosamente lottato per la nostra terra e per questo sono represse dalle forze dell’ordine.

“SARDIGNA 2020 L’UNICA GRANDE OPERA #stopesercitazioni #bonifiche #giustiziasociale” recita lo striscione che accompagnerà lo spezzone indetto da A Foras per il 30 novembre. E’ in corso in questo momento la campagna muraria “Stop Invasione, un manifesto per paese”, che sta attraversando l’isola per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle esercitazioni militari nell’isola; parallelamente abbiamo avviato un dialogo con i comuni sardi interessati dall’attracco delle navi militari pronte alle esercitazioni e dallo sbarco dei mezzi corazzati, per attivare delibere e mozioni comunali utili a tutelare sicurezza e viabilità cittadina davanti alla ingombrante presenza militare. Dal punto di vista accademico sia a Sassari che a Cagliari si sta attivando una campagna volta a far finanziare nel minor tempo possibile un corso specialistico in bonifiche, dedicato al futuro dei siti industriali e militari che una volta dismessi saranno lavoro e sviluppo per la nostra terra. Nel 2020 torneremo nelle strade, ci sporcheremo le mani, proveremo ad avviare una serie di “bonifiche, simboliche e autogestite”. Da una parte portando alla luce una serie di siti militari dismessi e lasciati a marcire sul territorio sardo, dall’altra testando un modo di coinvolgimento popolare e inclusivo, alternativo a cortei e manifestazioni di piazza.

Dalle scuole ai poligoni, dai porti alle università A FORAS SA NATO DAE SA SARDIGNA!.

30nova

Manifesto in formato stampa: A Foras – Dalla parte di chi lotta

Un trucco in cui non cadiamo

Tratto da Rompere le righe

Un trucco in cui non cadiamo

Qualche mese fa il Parlamento italiano ha dato lo stop all’esportazione di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti rispetto alla vendita di bombe costruite a Domusnovas in Sardegna dall’azienda tedesca Rwm. Tale scelta, dovuta alla guerra contro lo Yemen, vale solo per gli armamenti “pesanti” e non per le armi “leggere”.

Ora per i lavoratori sardi si prospettano 1600 posti di lavoro a rischio (di questo argomento, e della presa di posizione degli operai in merito alla produzione bellica, abbiamo già parlato su questo blog Lettera dei lavoratori RWM, qualcuno ha ancora voglia di chiamarli vittime?.)

Vogliamo soffermarci sulla posizione ipocrita dell’Italia in campo internazionale.

Allo Stato interessa poco degli operai, e poco potrà fare la Regione Sardegna per loro: il problema del lavoro nelle zone del Sulcis-Iglesiente va ben al di là della singola fabbrica, e ben altre risposte ci vogliono che interpellare il ministro degli Esteri attuale.

Una cosa è evidente, se si mettono assieme gli avvenimenti nella zona del Golfo Persico.
Che una azienda tedesca chiuda è un problema di poco peso, mascherato sotto il velo di una scelta etica, rispetto alla sanguinosa guerra nello Yemen. Ricordiamo che ci sono milioni di bambini denutriti, milioni di persone che muoiono di colera e fame, persino i giornali nostrani hanno approfondito la storia di questo conflitto.
Ma questa scelta del parlamento italiano va sovrapposta ad altri fatti rilevanti.
È ancora una volta l’azienda di Stato Eni che fa la voce grossa. Pochi giorni fa l’AD Claudio Descalzi ha annunciato che sono stati sottoscritti cinque nuovi accordi per aggiudicarsi concessioni e licenze esplorative negli Emirati Arabi Uniti, e il 20 % della società di Stato Adnoc Refinering è stata acquistata rafforzando la presenza di Eni nel paese arabo.

Questa mossa di Eni è fondamentale nello scacchiere geopolitico attuale, entrando in competizione con Total, con gli inglesi e gli statunitensi.
Lo scontro nello Yemen ha valicato i confini del piccolo paese dopo l’attacco alle raffinerie saudite, mettendo in mezzo l’Iran e i conseguenti accordi internazionali riguardo al nucleare, fatti questi ancora da decifrare.
A noi pare che la scelta “etica” di stoppare la vendita di armi all’Arabia sia più che altro una scelta di profitti, quelli più proficui, quelli del petrolio. Nonostante l’Eni continui a promuovere, con le sue campagne pubblicitarie, una soluzione energetica “green”, il petrolio rimane fonte di enormi interessi. Non c’è nessuna transizione energetica, e non c’è nessun blocco ai finanziamenti a paesi come gli Emirati Arabi Uniti, tra i principali responsabili della guerra in corso in Yemen.

A noi non bastano le “scuse” come quelle del governo britannico per la violazione dei “diritti umani” in merito alla vendita di armi all’Arabia Saudita dopo la sentenza del 20 giugno dell’Alta Corte di Appello: le scuse sono un pro forma per far finta di essere interessati al problema della guerra nello Yemen.
Non c’è nessun passo successivo che vada in direzione della risoluzione del conflitto.
Noi continuiamo a vedere la sofferenza di milioni di persone, e non cadiamo nel trucco delle finte scelte del “nostro” Parlamento, anzi, è proprio perché conosciamo i suoi vecchi trucchi che continueremo a sbugiardare la propaganda di Stato ed inciteremo ad una costante lotta contro i responsabili dei massacri sauditi, che siano emiratini o italiani.