All’ordine del giorno della riunione di oggi del Consiglio comunale di Marrubiu vi è il punto “Case di tolleranza. Discussione sull’abolizione della legge Merlin, indirizzo di opinione del Consiglio.” L’Unione Sarda dello scorso venerdì ha dedicato a questa notizia un articolo dall’originalissimo titolo “Riapriamo i bordelli”.
Si tratta di una proposta portata avanti dal sindaco e dalla maggioranza per la discussione di “un tema d’attualità” che possa produrre un documento da inviare al Governo.
Le parole del primo cittadino di Marrubiu sono chiarificatrici di quale sia la logica sottostate ad azioni di questo tipo: “riteniamo che la riapertura delle case di tolleranza rappresenti il rispetto della dignità delle donne, non più costrette a stare per strada. Ma è anche una questione di igiene, lotta alla criminalità e soprattutto un aumento della fiscalità.” Sotto un generalgenerico rispetto della dignità delle donne non vi è neanche il più blando tentativo di camuffare quello che è il reale interesse delle diverse piccole realtà amministrative (principalmente sono proprio i comuni che si fanno promotori delle proposte di abolizione della legge Merlin): il vile denaro che le “povere donne sbattute per strada” sono in grado di far girare.
Questi tentativi abolizionisti, soprattutto nelle loro magre rappresentazioni mediatiche (ci si può realmente aspettare che alti esempi di giornalismo come l’Unione facciano un’inchiesta dettagliata su questi temi?), finiscono per fare un nauseabondo calderone di una serie di aspetti diversi che compongono lo spinoso tema del lavoro sessuale.
L’aspetto fondamentale costantemente omesso è che la prostituzione non è riconosciuta come lavoro ma allo stesso tempo non è illegale. Un limbo giuridico nel quale i comuni, che propongono la riapertura delle case chiuse, sperano di sguazzare per sanare i propri bilanci sgocciolanti.
Lo sfruttamento della prostituzione quello si che è illegale ma, guarda un po’, lo è anche la maggior parte delle migrazioni che vanno a rimpolpare le fila delle sfruttate del sesso (le vittime di tratta) che sono dunque due volte private della propria libertà: costrette al lavoro sessuale e illegali in quanto “clandestine” che dunque rischiano un bel soggiorno nel cie di turno.
Quello a cui assistiamo in questi discorsi è una sovrapposizione (che anche il Parlamento europeo ha appena fatto con l’approvazione della risoluzione Honeyball) tra le vittime di tratta e le sex workers che scelgono liberamente di fare del sesso la loro professione. La riapertura delle case chiuse coinvolgerebbe solo quest’ultima categoria, in quanto non illegale, quindi non risolvendo minimamente la questione della tratta e limitandosi a mettere a posto le pie coscienze.
Ma l’aspetto più grave che queste proposte implicano, oltre alla banalizzazione di un fenomeno complesso, è il non riconoscimento delle e dei sex workers (si, sono principalemente donne, transgender ma anche uomini) come soggetti in grado di autodeterminarsi ed autorganizzarsi, ignorando completamente le rivendicazioni che da anni portano avanti, prima fra tutte il riconoscimento della prostituzione come lavoro.
Dietro la prostituzione ci sono persone reali, in grado di decidere per se stesse, che se ne fanno ben poco di tutto questo moralismo finto progressista (quello tradizionalista cattolico è più che sufficiente) che le vorrebbe chiuse dentro una casa di tolleranza senza neanche riconoscerle.