Nelle ultime settimane i quotidiani locali hanno riportato varie notizie riguardanti i consueti problemi con il bracconaggio. Monti di Capoterra e Monti dei Sette Fratelli le location più gettonate e prese di mira dai bracconieri, che con fucili o centinaia di trappole ogni anno uccidono centinaia e centinaia di animali. La guardia forestale ogni tanto becca qualcuno, ogni tanto fa opera di pulizia delle trappole, ma il più delle volte può fare ben poco, di fronte a territori immensi, difficile da controllare dove è complicato muoversi e dove è molto più facile prendere un cervo che un bracconiere. Questo non è un auspicio all’imprigionamento dei bracconieri ne un’assoluzione ai forestali è però parte del quadro della situazione.
Il problema vero però non sta solo nel reato e in chi lo dovrebbe evitare, nel senso che non si risolverebbe la faccenda eliminando i bracconieri, il problema è culturale, nella gente che compra e richiede senza problemi la carne di animali protetti, o la polpa di riccio nel periodo di fermo biologico per la riproduzione. Il problema è che la gente lo fa perchè in fondo crede che non sarà quel barattolino di polpa o quel cervo morto a provocarne l’estinzione e a rovinare l’habitat nel quale vivono. Di fondo il problema è l’ignoranza, il distaccamento e la disaffezione verso la natura sempre più marcato nella nostra società e in particolar modo dei centri più grandi. Sarà un caso che le due zone più colpite dai bracconieri siano le più vicine a Cagliari?
Di seguito un articolo su questo argomento pubblicato qualche anno fa su “Sa Tiria”:
Bracconaggio, una piaga sempre aperta.
Da sempre il peggior nemico degli animali è l’uomo, che siano essi carnivori, eribivori, pesci o volatili. L’uomo e l’antropizzazione sono state le cause di tutte le estinzioni avvenute negli ultimi secoli sulla terra.
Alcune estinzioni risalgono a talmente tanti anni che in molti non credono possibile che certi animali vivessero proprio nelle montagne che vedono tutte le mattine davanti a casa propria.
Un esempio su tutti sono gli orsi, diffusi in maniera abbastanza uniforme in tutt’Europa ora abitano solo alcuni fra gli angoli più sperduti e protetti del vecchio continente. In Italia sono scomparsi dalla Sicilia, da tutto il meridione e da buona parte di Alpi e Appennini.
Questo è solo uno dei tanti esempi, ma veniamo ora ai casi e alla realtà di cui ci interessa parlare, la Sardegna e la fauna sarda.
Per iniziare, occorre ricordare che la fauna sarda come quella di tante isole presenta numerosi endemismi, ossia specie appartenenti ai ceppi madre delle specie ma con caratteristiche, dimensioni, colori e abitudini uniche e caratterizzanti sviluppatesi nei secoli adattandosi a climi e terre diverse.
Gli endemismi sardi più diffusi sono il cervo sardo, il muflone, il cinghiale, la volpe e svariate specie di rettili e anfibi. Non è chiaro se anche il daino fosse da annoverare in questa lista poichè venne estinto prima che si potessero fare i necessari studi.
Il bracconaggio è un triste fenomeno diffuso in tutto il mondo, si tratta dell’uccisione illegale di specie protette o dell’uccisione in zone e periodi non consentiti.
Quando circa un secolo fa iniziarono a diminuire sensibilmente alcune specie animali pressate e braccate da una caccia incessante iniziarono a nascere le prime forme di protezione, ed è in quel momento che i cacciatori di pelli, di corna, artigli eccetera non volendo sottostare a queste regole divennero bracconieri.
I mercati continuarono e continuano a chiedere ciò che è proibito, che grazie a questa condizione aumenta notevolmente di valore attirandosi l’attenzione dell’avidità e della crudeltà umana.
Pelli di linci, ermellini, opossum, corna di rinoceronte, zanne di elefante, pinne di squali, testicoli e organi di tigri valgono migliaia di euro nei mercati clandestini di tutto il mondo.
Questo in scala più piccola ma altrettanto pericolosa per la vita degli animali, avviene anche in Sardegna. Negli ultimi cinquantanni abbiamo visto sparire dalla nostra isola numerose specie, le più famose sono le foche monache, il daino, l’avvoltoio monaco e il gipeto. Tutte a causa dell’uomo, tutte a causa del piombo dei proiettili.
Come sia potuto succedere? Le cause sono tante, ma le principali sono l’ignoranza e l’avidità. Le foche sono state estinte nella costa orientale a colpi di pallettoni perchè bucavano le reti dei pescatori per rubare i pesci e perchè sempre più soffocate da un turismo crescente iniziarono a partorire i loro piccoli nel buio delle grotte dove spesso questi nascevano ciechi impendendo così il ricambio generazionale. I daini furono sterminati per le loro abitudini mansuete e tranquille, di uscire allo scoperto delle selve all’imbrunire, per cercare erbe e germogli, dove invece trovarono solo fucili spianati, l’ultimo fu ucciso negli anni 60 nei boschi di San Vito, nessuno saprà mai se quei daini erano una specie unica.
L’avvoltoio monaco e il gipeto furono invece sterminati principalemtne dall’ignoranza dei pastori e dei cacciatori, i primi erano convinti che fossero pericolosi per il loro bestiame i secondi avevano già in passato la mania del sparare a tutto ciò che si muove o vola.
Su quest’ultimo caso vale la pena spendere due parole in più perchè è emblematico della poca cultura della natura che caratterizza le persone. In Sardegna esistevano tre specie di “avvoltoi”, mangia carogne, oltre ai due già citati esisteva e prova a (r)esistere ancora il grifone, questi tre magnifici rapaci insieme ai corvi imperiali e alle volpi ricoprivano un ruolo fondamentale nelle montagne della Sardegna, gli spazzini.
Essi nutrendosi delle carogne evitavano il pericoloso diffondersi di malattie e infezioni di cui spesso le carogne sono portatrici, il tutto seguendo un preciso rituale e una particolare divisione dei compiti. Le volpi normalmente si occupavano di trovare e segnalare involontariamente i cadaveri, i grifoni erano i primi ad arrivare e a cibarsi delle parti molli, poi giungevano corvi e avvoltoi monaci a mangiarsi il grosso e infine arrivavano i gipeti che portavano in cielo le ossa (a volte intere carcasse) e le facevano ricadere in modo da romperle e potersi poi cibare del midollo, insomma una catena di smontaggio ben oliata. Questo è solo uno dei tanti esempi di come l’uomo e la sua ignoranza intervenendo violentemente non solo danneggiano la specie interessata ma anche tutti gli incastri che permettono agli ecosistemi di sopravvivere.
Dopo questa lunga ma necessaria introduzione passiamo al vero fatto di “cronaca” di cui vogliamo parlare, l’enorme diffusione del fenomeno del bracconaggio in Sardegna al giorno d’oggi. In particolare parleremo della spietata caccia al cervo sardo e agli uccelli del sotto bosco.
Il cervo sardo portato sull’orlo dell’estinzione verso la fine degli anni ’70 gode oggi di discreta salute, numericamente è in una situazione abbastanza tranquilla e i suoi areali si stanno espandendo sia naturalmente sia tramite ripopolamenti. Storicamente diffuso in tutti i massicci dell’isola verso la fine degli anni ’70 era confinato in tre zone non comunicanti fra loro, i monti dei Setti fratelli nel sudest dell’isola, i monti di Capoterra nel sudovest e nelle dune fra Montevecchio e Piscinas, in quest’ultima zona in un censimento di inizio anni ’80 furono censiti solo 13 esemplari. Nell’ultimo ventennio un’opera di sensibilizzazione e difesa ha permesso di tornare alla situazione attuale cioè ad avere qualche migliaio di esmplari. Purtroppo ne la creazione di oasi, ne una maggiore sensibilizzazione hanno messo un freno ai bracconieri, che sempre più spietati continuano la loro opera. Vediamo come. Le pratiche più diffuse sono due, la caccia di notte, con l’ausilio di fari o direttamente da fuoristrada e l’uso di migliaia di micidiali lacci in acciaio in cui i cervi e non solo rimangono intrappolati fino a morire d’inedia o di coltellata del bracconiere sopraggiunto.
Il primo metodo permette di “scegliere” la preda che nella tranquillità della notte e abbagliata dai fari spesso si concede a un facile tiro, i pericoli di questa pratica stanno nella possibilità di essere rintracciati grazie all’eco dello sparo ma fra i monti è molto difficile riconoscere la provenienza di un solo sparo, già un secondo permette almeno un orientamento di massima, questo però ammettendo che ci sia qualcuno che ascolta e che poi vada a cercare.
Il secondo metodo è completamente differente, necessita di una conoscenza dei boschi molto dettagliata e di lunghe camminate per evitare sentieri e strade battute. Il bracconiere una volta individuata una piccola porzione di bosco dove c’è un regolare passaggio di cervi, spesso nei pressi dei ruscelli, posiziona un laccio in ogni passaggio cercando di non lasciargli scampo. Questo vale anche per “le strade” dei boschi, ossia quei sentieri spesso nelle zone più impervie e nascoste dove gli animali passano abitualmente per scollinare o per risalire un costone. Girando per i boschi del sudovest è facile imbattersi nei lacci, probabilmente un bracconiere in una giornata di posizionamento dei lacci ne mette una cifra variabile da 50 a 200, dopodiche passa i giorni successivi a controllare se qualcuno è caduto in trappola. Non sono solo i cervi a rimanere intrappolati, anche cinghiali, volpi, cani e tutti i quadrupedi del bosco. Può anche capitare che un bracconiere non vada a controllare i lacci lasciando gli animali alle loro sofferenze fino alla morte, o anche che un animale rimanga intrappolato in un vecchio o vecchissimo laccio, lontano dagli occhi e dalle orecchie di tutti.
Queste scene terribili sono abbastanza comuni, non è raro imbattersi in cervi, cinghiali e volpi morte, di cui si intravvede solo più qualche osso e l’inconfondibile laccio d’acciaio attaccato a una zampa.
La cultura della caccia e della pesca illegale è purtroppo molto radicata in Sardegna, ufficialmente dovrebbero essere i forestali a occuparsene ma è chiaro che il compito non è facile e non sono poche le voci che sostengono che alcuni forestali siano ottimi bracconieri, ma queste sono voci e comunuqe poco importano, certo la soluzione non è mandare un povero cristo in prigione o fargli 12.000 € di multa, qualcuno propone il sequestro dei fucili ma anche questa mi sembra ben poco risolutiva come opzione.
Io considero questo articolo come l’inizio della seconda fase della mia lotta al bracconaggio (dopo aver tolto centinaia di lacci e continuare a farlo), il bracconiere esiste perchè c’è qualcuno che compra ciò che lui uccide, cercare di portare nelle case delle persone un pò di cultura in questo senso potrebbe essere l’arma vincente, in assenza di clienti il bracconiere dovrebbe trovarsi un altro lavoro. Potrebbe sembrare un progetto utopistico, e un pò già mi piace, ma in realtà ci sono esempi di come questo lavoro abbia avuto successo, in passato esisteva un commercio sottobanco di tartarughe marine, quando queste diminuirono sensibilmente, e contemporaneamente si diffuse un lavoro informativo, la richiesta cessò e anche la caccia illegale, ora esistono due centri per la cura delle tartarughe ferite. Due parole a proposito del bracconanggio a danno dei cosiddetti uccelletti, gli uccelli del sottobosco anch’essi oggetto di caccia spietata. Qui chiaramente si tratta di forme di caccia completamente diverse, la più diffusa è il cosiddetto crine di cavallo, cioè un filo sottile con due o tre cappi attaccato a due pezzi di fildiferro apposti su un ramo, di questi se ci si imbatte nella porzione di bosco giusta e possibile trovarne centinaia, anche perchè la cattura è più difficile. Meno diffusa ma più efficace è la rete, una rete a maglie finissime appesa a due alberi che intrappola tutto quel che ci passa dentro. Anche qua vale lo stesso discorso di prima, il bracconiere mette le trappole e dovrebbe passare poi ogni giorno a controllare e prelevare le prede, appostamenti a questa fase sono le strategie assai poco redditizie che usano i forestali per provare a beccare qualcuno, ma è facile immaginare come siano di difficile attuazione.
Come ultimo elemento porto dei racconti che ho sentito a proposito dei “tubi fucile”, pericolossisime trappole per la cattura prevalentemente del cinghiale. Si tratta di tubi di ferro con un rudimentale detonatore in grado di far esplodere uno o più pallettoni, apposti al lato di un sentiero di passaggio della selvaggina hanno come innesco un filo che se tranciato dal passaggio dell’animale mette in funzione il tubo che spara uccidendo l’animale. Diffusi fino a qualche decennio fa ora pare che siano in quasi totale disuso, anche se due anni fa un escursionista vide il suo cane morire per aver fatto saltare l’innesco. Si dice che i bracconieri li sistemino la notte e li tolgano la mattina, per evitare incidenti e attirarsi troppe attenzioni.
I bracconieri esistono se la montagna e i boschi sono disabitati e sconosciuti, troppe persone non hanno idea di cosa ci sia a pochi chilometri dalle loro case e dai loro posti di lavoro. Riappropriarsi delle conoscenze della terra e degli animali è il primo passo per vivere meglio ed evitare che la natura continui la via della distruzione totale.