Traduciamo un articolo pubblicato domenica 2 dicembre sul sito di controinformazione Paris Luttes: https://paris-luttes.info/la-revolution-pour-ou-contre-11165?lang=fr
Riteniamo questo articolo parecchio interessante per vari motivi: prima di tutto ci permette di lasciare la parola alle riflessioni interne ai compagni francesi; in secondo luogo, crediamo ponga degli interrogativi attuali e che toccano i “punti deboli” del movimento rivoluzionario contemporaneo; inoltre, sia offre un ulteriore resoconto dell’evolversi della situazione in Francia, sia si riallaccia all’articolo da noi pubblicato la settimana scorsa per quanto riguarda dubbi, impressioni, analisi e prospettive viste e vissute durante l’esperienza delle ultime settimane.
Domani, 8 dicembre, si prospetta una giornata bella calda. Con un appello generale dei Gilets Jaunes di mattina e la Marche pour le Climat (Corteo per il cambiamento climatico) alle 14, lo Stato ha annunciato una mobilitazione massiccia di forze dell’ordine. Durante la settimana peraltro queste hanno continuamente represso con ancora più violenza le mobilitazioni studentesche (vari feriti gravi ovunque), oltre che fare visite alle case di compagni a loro più conosciuti o organizzatori dichiarati di momenti di piazza. Con il tentativo di riappacificazione fatto da Macron nel gelare per 6 mesi, poi un anno, la legge sul carburante, si accompagna una politica contro-insurrezionale immediata. Possiamo solo sperare che la piccola vittoria di aver bloccato per un anno una legge non abbia quietato la rabbia e gli animi degli insorti gialli, ma che anzi, l’ennesima presa in giro dello Stato e il rinforzo repressivo su tutti i fronti determini una piazza e una giornata ancora più decisa.
Jusqu’au bout.
Buona lettura.
La rivoluzione: pro o contro?
Alcuni/e, qualche anno fa hanno posto come interrogativo della loro azione: “Che fare dell’idea rivoluzionaria quando il contesto non si presenta come tale?” Abbastanza giustamente, la loro risposta, attraverso il loro radicamento in un quartiere, è stato di contribuire a costruire un contesto d’autonomia. Oggi, le circostanze non sono più esattamente le stesse, il cielo sembra essere un po’ più nervoso. Allora, è forse il momento di riformulare la massima:” Come riaprire l’ipotesi rivoluzionaria quando il contesto lo è diventato ancora una volta?”
Durante queste ultime settimane parecchi-e militanti hanno girato attorno alla questione di una agitazione percepita come esogena, i Gilets Jaunes. “Sta succedendo qualcosa ma non viene da noi. Siamo pro o contro?” Gran bel grattacapo. Perché un tale sfasamento tra questi/e militanti e la situazione?
Innanzitutto, si parla di “teste calde che non vogliono quella tassa”…Poi, si comincia a motivare il rifiuto con una disapprovazione verso le condotte razziste, sessiste et omofobe. In seguito, il rifiuto quasi istintivo si è modificato in esitazione. Ci si è resi conto che questi soggetti e queste azioni potevano non essere rappresentativi dell’insieme dei Giliet Jaunes, perché certamente i Gilets Jaunes sono qualcosa di eterogeneo.
La settimana del 17, nonostante le azioni dirette, i blocchi importanti dell’economia e le manifestazioni selvagge, persiste una certa reticenza poiché, pur essendoci una rivolta, una parte resta sempre per nulla favorevole all’andare a manifestare con “tutti quei fasci”. Un’altra invece, insiste, al contrario, che la sua presenza è necessaria per non lasciare loro terra libera. In ogni caso, bisogna riflettere. Sono passate due settimane, tra prudenza, analisi e quasi assenza di un piano d’azione. Mentre vi è una continuità inalterabile delle lotte, quelle di sempre. Come se i Gilets Jaunes bloccassero le strade…in Quebec.
Alcuni/e suggeriscono che oltre il disprezzo di classe, la ragione profonda è che, al momento decisivo, i/le militanti rifiuteranno il cambiamento, generale come personale. Sottintendendo che questo rifiuto è praticamente intrinseco alla condizione militante. Ci sarebbe quindi una deriva conservatrice del militantismo? Se c’è una tendenza militante a oscurare la potenzialità d’un cambiamento improvviso, è la paura dell’imprevisto, dello sconosciuto, dell’ignoto il quale spiegherebbe lo scarto con l’esplodere di una nuova situazione.
Una cosa è certa, vi è un’avaria o di disponibilità, o di gusto per la spontaneità. A rischio, le abitudini militanti. Queste hanno impedito di vedere dentro questo inizio inedito di agitazione, non solamente la rabbia legittima dei Gilets Jaunes, ma anche la possibilità di un sollevamento popolare che oltrepassa i contorni e l’intensità di un “movimento sociale”.
Quei media che critichiamo senza sosta quando attaccano i nostri movimenti, avrebbero all’improvviso guadagnato una credibilità agli occhi di questi/e militanti? Dal momento in cui vi è una aggressione razzista o omofoba, i media ci si gettano sopra. Tuttavia quando una vecchia prefettura è occupata a Saint Nazaire ed è chiamata “Casa del Popolo”, o quando si cacciano dei fasci a Rouen e ci si organizza con i sindacalisti per allargare i blocchi economici…Zero notizie allora.
Sabato, il 24 ottobre, un numero maggiore di militanti ha camminato lungo gli Champs-Élysées. Dalla mattina dopo questa giornata di conflitto, si constata una visione più di buon occhio dei Gilets Jaune. Le immagini dei Champs-Élysées, oltre che qualche appello di collettivi conosciuti, hanno fatto in modo che molti non potessero restare sulla loro posizione contraria. Qualche cosa, tra il feticismo dell’insurrezione e una vera e propria presa di coscienza, ha portato a sentire questa non-partecipazione come una vergogna.
Quando i/le militanti hanno iniziato a riscaldarsi, è stato alla fine il momento di chiedersi “Cosa fare?”. Andare alle manifestazioni…e poi? Una penuria di immaginazione, mentre ovunque, ve n’è in abbondanza.
Invece che vederla come un rischio – di sentirsi inutili e minoritari- la partecipazione oggi potrebbe essere esattamente quel momento che spinge le abitudini a diluirsi alla sperimentazione, e a priori questa sarebbe piuttosto una bella notizia.
Potremmo sentirci dire che due, tre settimane di “ritardo” sono piuttosto la durata di una prudenza giustificabile. Risponderemmo che, se si è potuto dire che in un certo momento è stato un movimento fascista, è proprio perché questi ultimi, come dimostra la parata del Bastion Social a Lione il 17 novembre, non hanno avuto questo ritardo.
Potremmo anche rispondere che per farsi un proprio parere, l’esperienza sul campo resta indispensabile. In ogni caso, non è il ritardo a essere sconvolgente, piuttosto i motivi che l’hanno reso inevitabile.
Questa mancanza di reattività è la prova di un ragionamento strategico che non permette di agire nel momento in cui lo sconvolgimento di una situazione non lo si ha messo in scena se stessi. Oppure allora, della mancanza totale di un ragionamento strategico.
A quelli e quelle che hanno rifiutato e denigrato le prime scosse dei Gilets Jaunes, bisogna sinceramente porre una domanda: come si immaginano loro lo sbocco di una situazione rivoluzionaria? Attraverso l’azione decisiva di una organizzazione? In rapporto a un soggetto unico e omogeneo? O allora se non si immaginano un cambiamento di ritmo, come intendono realmente avanzare con le loro idee? Grazie a una estemporaneità, inattaccabile dagli altri che li circondano?
Per quanto ci riguarda, non intendiamo discutere se assistiamo o meno a una situazione rivoluzionaria. Invece, è ben possibile che la gran parte delle rivolte che verranno (e una buona parte di quelle passate) assomiglino a questo che vediamo svolgersi da 3 settimane nella Francia metropolitana e a La Réunion. Soprattutto, pensiamo che sia auspicabile che esse si conducano in questo modo.
Senza che sia sbloccata da un partito o una organizzazione politica. Senza che qualsiasi capo, rappresentante o persino leader riesca a farsene porta-parola, essendo stati tutti dei tentativi condannati da tutte le direzioni.
Se i primi blocchi sono stati lanciati da un appello di un piccolo numero di individui – alcuni poco raccomandabili – e spinti da una rivendicazione specifica – la soppressione di una tassa sui carburanti – il loro sconfinamento è stato praticamente immediato. Da allora, l’agitazione si è estesa a macchia d’olio e si è materializzata, localmente, in maniera simultanea; ma anche nazionalmente, con dei momenti di convergenza. Così, abbiamo visto fiorire un immensa varietà di gesti di insubordinazione: pedaggi gratuiti, rifiuto di far autorizzare le manifestazioni, blocchi economici; e azioni dirette: occupazioni degli uffici distrettuali, un assalto col trattore agli uffici statali, irruzione nelle case dei deputati, saccheggio di grandi magazzini…la lista è lunga.
Al posto delle piazze, oggi sono le rotonde che costituiscono la base fisica della mobilitazione. Sono il segno di uno spostamento dell’organizzarsi verso le periferie.
In questo momento, presso numerosi blocchi, intorno ai focolari, le panchine in pallet iniziano piano piano a trasformarsi in capanne e abitazioni…
Una sommossa che esige, come tante altre precedenti, la dignità. O meglio, quando si sentono o si discute con uomini e donne che mantengono i blocchi da più di 10 giorni, con il freddo e sotto la pioggia, si capisce che questa dignità iniziano a ritrovarla nella lotta, nello scontro con colui il quale, per il momento, è individuato come il principale colpevole, il monsieur Macron.
Tuttavia, come si può non essere allarmati dai numerosi atti schifosi (una donna a cui è stato strappato il velo o dei migranti aggrediti a Calais) e che non si fermeranno per forza lì? Come non infastidirsi a causa degli applausi di fronte agli sbirri? O ancora, il numero di bandiere francesi? Non ci sentiremo meglio se non nel momento in cui a queste si aggiungeranno quelle algerine, bretoni, kabyle, quelle della rivoluzione siriana, del movimento zapatista, al fianco delle bandiere rosse, nere e LGBT. Perché siamo convinti che le identità non spariranno da un giorno all’altro.
Parrebbe una grande banalità ricordare che sì, nei movimenti di rivolta, succedono delle cose brutte, preoccupanti. Queste rispecchiano l’aria del tempo, espressione e espiazione di idee e passioni, sostanzialmente tristi.
La caduta di Macron o persino di un regime non è il sinonimo della caduta dello Stato, del capitalismo e delle oppressioni di qualsiasi tipo. E ancora meno dell’avvenire di un mondo giusto e egalitario. Quello che potrebbe succedere sarebbe una tappa importante da inscrivere in un processo rivoluzionario dai tempi lunghi.
Pertanto, in questo momento di intensità, non è possibile adottare la stessa mentalità che si ha nel momento in cui ci si dedica a costruire con pazienza. La domanda ci sembra essere: come partecipare, contribuendo all’avanzare rivoluzionario di ciò a cui miriamo, a questo impulso di rivolta che auspica la destituzione di un presidente? Senza cercare di prendere il potere dentro tale impulso, (che sarebbe comunque la cosa meno plausibile), mentre si contrastano i tentativi dei nostri nemici.
Per sovvertire le loro iniziative, ci sarà bisogno di una grande dose di sottigliezza collettiva e situazionale. E non è una questione astratta ma è quello che sarà determinato a tutti i livelli, a scala nazionale come regionale, nei discorsi trasmessi alla radio come nelle rotonde.
Perciò, cercare di attivare tutto quello che si è tentato di costruire questi ultimi anni in termini di legami, idee o strumenti, sarà necessario.
Oltre le risorse materiali, abbiamo sviluppato dei modi per combattere le oppressioni, che esse siano sessiste, razziste o di classe. Niente si è concluso, niente è soddisfacente, tutto è incredibilmente incompleto, ma abbiamo comunque delle buone proposte.
Il servizio medico nei cortei, gli espropri per smettere di pagare un affitto, le cantine popolari per incontrarsi e far fronte alle pene di fine mese.
Ma di tutte queste cose, che cosa ne vogliamo fare? Custodirle per il nostro proprio benestare. Sperando che qualcuno/a finisca per capitarci per caso mentre svolta l’angolo?
Sarebbe un riprodurre i nostri privilegi, o peggio, inventarne dei nuovi.
O al contrario cercare di diffonderle, di metterle a disposizione, e soprattutto di permettere il loro mutamento nell’incontro con l’intensità, con l’esterno e nei modi più complicati. Occorre proporre all’interno della situazione delle risposte per battersi allo stesso momento contro il nemico e contro i mostri interni a sé stessi.
Ad ogni modo, vale di più contribuire al fatto che una rivolta non sia recuperabile piuttosto che profetizzare il suo recupero per complimentarsi di aver avuto ragione.
Per essere chiari, il nostro intento non è di richiamare tutti/e a infilarsi il giubbotto giallo. Si può anche fare, certo, ma è piuttosto nel partecipare all’intensità a modo suo. Questo può significare sia incrociare gli/le occupanti di queste rotonde sia sovvertire le nostre proprie lotte.
Sabato 1 dicembre, l’ondata gialla imperversa per la terza volta sull’Eliseo. Parigi invasa, da migliaia di persone che invocano la rivolta, la rivoluzione. Bisogna prendere pieno atto di quel ritmo. Non giocare in contro-tempo.
Visto che la questione non è più di allearsi col “movimento”. Non si fa alleanza con un movimento. Ancora meno con una rivolta. Ci si unisce. Ci si butta.
Dopo tutto questo, per quelli e quelle che vogliono ancora discutere se il gioco vale la candela nell’approcciarsi a quello che sta accadendo piuttosto che chiedersi quello che potrebbero farci dentro, noi proponiamo una domanda semplice per animare le loro discussioni: “La rivoluzione: pro o contro?”
Dal canto nostro, abbiamo fatto la nostra scelta: aggiungere le nostre forze a quelle si apprestano a bloccare la nazione, spingerle a riflettere e iniziare a costruire quello che desideriamo.
Contribuire alla caduta del regime e all’organizzarsi senza esso
Un contributore e una contributrice.